Materia, Potenza, Forma
di Giovanni Bovecchi
In arte la “forma” è “contenuto”. Quante volte avremo sentito questo leit-motive divenuto col tempo quasi uno slogan. Eppure a ben pensarci non sapremo spiegare bene perchè. Quando la forma diviene contenuto o quanto un contenuto è tale in quanto forma. E, credo, che mai, come nel caso di Franco Miozzo, questa specie vaexata questio sia divenuta pressante, attuale, consistente, coerente, perfino insistente.
Così, superate le logiche ferree di un formalismo scultoreo e/o pittorico imposte – ma in Miozzo quasi trascese in un naturale slancio sempre astrattista e volumetrico – che denotava in nuce un percorso d’interesse verso l’ideologia di una genesi primordiale delle forme o piuttosto un interesse nei confronti dell’arte primitiva ed espressionista declinando verso soluzioni apparentemente ingenue ma intrise di una forza di sintesi. Quasi che in Lui si muovessero due ideali di estetica: l’esigenza di un volume scultoreo, della potenza della forma e la ricerca di una sintesi formale che divenisse quasi mistero, rivelazione mediata da un codice estetico che solo la purezza può scoprire.
A Pietrasanta, infatti non trovò, negli anni Trenta, nell’interregno di pace tra le due guerre mondiali, quegli stimoli che egli cercava e s’imponeva, linguaggi che sarebbero stati successivi a quel periodo, verso la fine degli anni Cinquanta, con l’inizio della scultura informale di Henry Moore, di Isamu Nouguchi, di Jean Arp e Jacques Lipchitz e successivamente con Giuliano Vangi. Basti osservare la Reclining Figure di Moore del 1959 e compararla con alcune precedenti intuizioni/visioni informali di Franco Miozzo per dimostrare più che facilmente, dire quasi in modo elementare, ictu oculi, di come la potenza della forma sgretolasse, spingesse dal di dentro la figurazione di natura e la espandesse verso quella informalità e sintesi che sono state per tutta la vita il linguaggio crescente della sua ricerca, della sua sperimentazione ma, vorrei dire, proprio della sua arte, facendo di lui, nella storia del Novecento artistico italiano e quindi internazionale, il conio precursore di moltissime tendenze e scuole informali e neofigurative che sarebbero solo in seguito andate poi a caratterizzare gran parte del Secolo XX.
Miozzo opera intellettualmente e artisticamente in una finestra temporale stracolma di eventi fondamentali per l’arte italiana e internazionale. Il Novecento è da considerarsi un secolo culturalmente vivo, atipico e contraddittorio per certi versi. Il secolo della sperimentazione. Il secolo del concettuale. Il secolo delle ideologie. Il secolo della globalizzazione artistica e del disincantamento. Il secolo della scultura informale, della pittura pop e della rottura con una passato “rinascimentale” ritenuto a volte imbarazzante ed inconcepibile. E ancora è stato il secolo del progresso, l’impennata ascendente del concetto di velocità, meccanizzazione seriale, e con essi il secolo del problema sociale uomo-macchina-padrone, il secolo in cui le teorie di Carlo Marx venivano applicate alla lettera, il secolo della scoperta di farmaci indispensabili al prolungamento della vita, il secolo della psicanalisi, il secolo dei grandi conflitti ideologici e culturali, il secolo delle libertà e dell’emancipazione femminile, il secolo della fine dell’aparthaid, il secolo della caduta del muro di Berlino e quello della conquista della Luna. Ma fu anche il secolo dei due conflitti mondiali, del Vietnam, di Hiroshima e Nagasaki, dell’orribile genocidio nazista degli ebrei, dell’omicidio di Kennedy a Dallas e quello di Martin Luther King a Menphis e quindi anche quello dei diritti civili e della pace con Maria Teresa di Calcutta e Gandhi, fu il secolo della nascita dell’Unesco e della scoperta della penicellina da parte di Flemming premio Nobel nel 1945 e Sabin con il vaccino orale per la poliomelite. Non possiamo immaginare la ricchezza incandescente che questo secolo travasava in ogni campo dello scibile umano. Ed infine fu l’era della comunicazione, dei Mass Media, di internet.
E’ in questo clima che l’arte di Franco Miozzo si forma, e Miozzo scultore e pittore ne partecipava le istanze culturali superando quel manierismo locale diffuso a causa dei contesti storici di committenze religiose e interpretando ante litteram le “forme” originali, come usava dire lui, con anticipazioni direi addirittura sorprendenti.
Un artista visionario dotato di una straordinaria sensibilità emotiva che travalica il tempo. Gli anni del fronte Balcano-Croato: la tragedia che si fa umanità in una figurazione che è già scultura, statica e dinamica.
Impressionanti sono, in questo senso alcuni studi rimasti fino ad oggi inediti realizzati su carta nel periodo della seconda guerra mondiale quando l’artista venne richiamato alle armi sul fronte Balcano - Croato. Studi, bozzetti, eseguiti con materiale povero, dipinti con la cera delle scarpe, sfruttando sia la parte anteriore che quella posteriore di un foglio, di un cartone o di un vecchio giornale. Si può leggere già in questi l’anticipo di una problematica esistenziale, quasi escatologica, che infatti andrà a caratterizzare la nevrosi sociale e crisi di religiosità dell’uomo del XX secolo, al di là delle ferite, descritte perfino crudemente nei suoi appunti segnici, che la guerra spargeva – cieca ad ogni orizzonte di pace – sull’umanità, sulla natura, sugli animali che Franco tanto amava perchè sapeva già di essere parte del tutto, che l’uomo non è sopra le cose ma nelle cose e trascorre nel tempo, veloce, come il vortice della tempesta che tutto inghiotte. E così notiamo figure, uomini, donne, soldati, mendicanti, animali morenti, suonatori di fisarmonica senza più gli occhi, delineati sempre con potenza espressionista, vigore, ma anche interpretati sociologicamente e psicologicamente quasi come dotati di unavigorosa ma statica potenza, come se la forza non potesse più liberarsi, come se essi fossero sì potenti nella forma, ma inermi spettatori della tragedia del mondo. In alcune di queste figure umane, a volte sviluppate orizzontalmente per utilizzare un termine palosciano a volte verticalmente per anticipare l’afflato spirituale dei suoi San Martino, vi è sempre questa lotta tra il relativo e l’assoluto, tra l’uomo della terra e il mistero divino in guisa tale che a volte l’uomo di Miozzo trasfigura se stesso in un verticalismo evanescente, “vangiano”.
E vi sono anche in questo caso curiose anticipazioni del Nostro che fanno molto riflettere sulla grande statura dell’artista ormai d’adozione pietrasantese: due esempi, un disegno di una figura d’uomo non più pietrosa come i suoi cavatori, dipinti ad olio in cui le camicie sembrano scolpite col marmo delle Apuane simile al nudo sasso su cui dopo l’immensa fatica il lavoratore si siede per una breve pausa, a testa bassa, quasi pregando con quelle sue mani immense che difficilmente riusciranno a congiungersi, mani gonfie per la fatica o potenti come le mine che brillano nella roccia per scavare nuove gallerie di cave o per staccare immensi blocchi di marmo che rotolano a valle e tonfano a terra con un rumore quasi primordiale, spesso portandosi via una vita già patita.
Il canto di Miozzo alla Versilia e nel cuore un ecumenico sentimento d’amore per tutto il creato. L’erotismo della madre terra: un neofigurativismo sociale, ispirato alla tradizione contadina.
La Versilia degli anni Venti e Trenta e dei primi Quaranta, prima dello scoppio della II guerra mondiale, fu per Franco Miozzo, come anzidetto, una terra ricca di esperienze estetiche e di stimoli artistici: sulle ceneri della distruzione materiale e spirituale però come una Fenice reale nuove e feconde istanze di ideali etici ed estetici parevano ricomparire. L’idea di una Repubblica Apuana, il sogno di un cuore geografico ove come in un’Arcadia senza tempo s’incontrassero le anime più rigogliose, uomini “seminatori” di sogni e di bellezza. “Seminatori si dichiaravano appunto i poeti, i letterati e gli artisti, che facevano capo alla rivista Apuania fondata nel 1926 dal poeta Garibaldo Alessandrini e il letterato Giulio Paiotti”. La sementa come simbolo della rinascita: il seme che nella terra, nella zolla, fa germogliare nuova vita. Nella poetica “contadina” di Franco Miozzo che travasava nella Versilia il suo ideale di bellezza la figura del seminatore declinata al maschile e al femminile acquisisce il valore di simbolo con un interesse per la forma più ingenua e spontanea, per il paesaggio più verde con quelle sue montagne e case “monolitiche” sempre ben salde alla terra quasi a proteggere le sue genti, l’eredità di un sapere semplice e colto.
Ed ecco allora paesaggi e fisiognomiche di memoria sironiana e funiana, dove gli elementi o architettonici o figurativi umani o di natura vengono trasfigurati con sperimentali dilatazioni dello spazio ed esaltati da vasti piani di luce che ribaltano immediatamente il senso formale del dipinto. Così una grande massa di vegetazione dai colori visionarii, colori d’anima, proteggono in un abbraccio gigantesco un casolare che appare piccolo piccolo, mentre un sole giallo illumina d’improvviso una fase del giorno che, in questo quadro, non ha più né ora, né luogo. Il dipinto della pagina a fronte lo possiamo considerare perciò un’opera liminale tra la figurazione, la mistica di un paesaggio di natura (che riafferma perentoriamente le proprie leggi contro un’umanità indifferente alla bellezza del pianeta mondo) e una geniale disillustrazione cromatico-astrattista che spinge la realtà stessa verso una metafisica originale e spontanea; esattamente come in altre due opere (p. 22 e p. 118), ove l’idea di una luce che esalti sui piani dei declivi apuani il nitore caldo della trasparenza del cielo, rende omaggio ad una terra dove la bellezza di natura spesso viene macchiata di sangue, sangue di guerra come nelle opere dedicate alla strage di Sant’anna di Stazzema o sangue di lavoro: così nel canto alla nostra terra, in questa sua pittura che si fa preghiera e ascolto del creato, non possiamo non richiamare l’attenzione di Miozzo sull’uomo che vive tra le cime e il cielo, l’uomo che al mattino, con le stelle ancora nel buio nel cielo, parte dalla sua casa a piedi per giungere sulle cave di marmo, così in alto, sulle Apuane, che le nubi certe volte gli stanno sotto, l’uomo a cui Miozzo stesso dedica una struggente poesia dotata di un impatto fortemente realistico sul piano emozionale: il cavatore che, seduto sulla pietra per un breve riposo, dialoga con Dio.
E ancora come non leggere in quelle strane suore con cappelli a gabbiano, suore spesso a guardia del territorio, o a cavallo, come soldatesse di Cristo, il valore simbolico della pace in dipinti di struggente poesia a cui il poeta Cristiano Mazzanti dedica queste righe:
Le suore di carità di Franco Miozzo
scontato il cappello gabbiano
al volo permanente fra i flutti
della vita
pregna l’immagini della veste
incinta come damigiana:
infatti la suora
travasa la carità
dal suo interno
per un abbraccio totale
quasi un allattamento apuano delle nuvole
e cerca i fiaschi da riempire
con i riflessi di anima
dagli ospedali di Viani
alle Crocifissioni apuane di Miozzo.
E poi le madri, le donne che sono la terra che partorisce il frutto, operose, forti, dipinte con pennellate seducenti nella grandi forme anatomiche, armoniose, ove di consueto la sproporzione voluta e insistita assume anche in questo caso il valore di una esigenza estetica ed erotica raffinatissima. Forme in cui scorre la luce di una varietà di cromatismi assolutamente perfetti ed inaspettati, anzi perfetti proprio perchè sorprendenti. Ed infine il cavallo e gli asinelli di Franco, intenti a mangiare in una sacca il loro fieno, dall’esile struttura. Recita così sempre il poeta Cristiano Mazzanti:
“Il cavallo di Miozzo è un cavallo evangelico, da meditazione, francescano che risponde con la sua solennità scheletrica alle convulsioni nevrotiche dell’uomo che, per quanto con due piedi, corre sempre come un quadrupede senza mai raggiungere il traguardo.”